Stare, guardare, abbracciare

Resoconto della GMG di Panama

«Cari giovani, questa Giornata non sarà fonte di speranza per un documento finale, un messaggio concordato o un programma da eseguire. Quello che darà più speranza in questo incontro saranno i vostri volti e una preghiera. Col volto con cui tornerete a casa, col cuore cambiato con cui tornerete a casa, con la preghiera che avete imparato a dire con questo cuore cambiato. Ognuno tornerà a casa con la nuova forza che si genera ogni volta che ci incontriamo con gli altri e con il Signore, pieni di Spirito Santo per ricordare e mantenere vivo quel sogno che ci fa fratelli e che siamo chiamati a non lasciar congelare nel cuore del mondo: dovunque ci troveremo, qualsiasi cosa staremo facendo, potremo sempre guardare in alto e dire: “Signore, insegnami ad amare come tu ci hai amato”»

Con queste parole Papa Francesco inaugurava la Giornata Mondiale della Gioventù di Panama, svoltasi dal 22 al 27 gennaio u.s., un’autentica esperienza di grazia per tutta la Chiesa, soprattutto per gli oltre 700 mila partecipanti.

Di questi erano circa 900 i giovani italiani, 94 provenienti dalle nostre diocesi di Piemonte e Valle D’Aosta, 27 dall’Arcidiocesi di Torino. Se, come diceva il papa, la GMG sarà fonte di speranza attraverso i volti dei giovani che vi hanno partecipato, si apre la domanda sul “dopo GMG”, ovvero sulle ricadute spirituali di questa straordinaria esperienza di Chiesa che, a differenza delle GMG di Madrid e Cracovia, necessita di una maggior mediazione pastorale, data la complessità della partecipazione diretta, per il periodo e il luogo dell’ultima edizione.

Il cammino dei giovani nelle nostre comunità, oratori, associazioni, movimenti e gruppi potrà trovare nuovo slancio non solo dall’entusiasmo dei giovani che sono tornati da Panama o dalle numerose testimonianze presenti sui social, ma anche dalle provocazioni che Papa Francesco ha consegnato ai giovani, dopo averli ascoltati e incontrati, in un ideale prolungamento dell’esperienza sinodale. 

 

Colpisce innanzitutto l’insistenza sulla «radice e fondamento» della nostra fede, cioè il rapporto personale con Gesù Cristo.  «Il cristianesimo non è un insieme di verità da credere, di leggi da osservare, o di proibizioni. Il cristianesimo visto così non è per nulla attraente. Il cristianesimo è una Persona che mi ha amato tanto, che desidera e chiede il mio amore. Il cristianesimo è Cristo» […]. È portare avanti il sogno per cui Lui ha dato la vita: amare con lo stesso amore con cui ci ha amato. Non ci ha amato a metà, non ci ha amato un pochino. Ci ha amato totalmente, ci ha colmati di tenerezza, di amore, ha dato la sua vita. Ci domandiamo: Che cosa ci tiene uniti? Perché siamo uniti? Che cosa ci spinge ad incontrarci? Sapete che cos’è che ci tiene uniti? È la certezza di sapere che siamo stati amati con un amore profondo che non vogliamo e non possiamo tacere; un amore che ci provoca a rispondere nello stesso modo: con amore. È l’amore di Cristo quello che ci spinge (cfr 2 Cor 5,14)» (Discorso di apertura della GMG). La centralità della persona di Cristo conduce però ad abbracciarlo, a coinvolgersi con lui nel suo mistero più profondo e scandaloso, quello della sua Croce: «Abbiamo il coraggio di rimanere ai piedi della croce come Maria? Contempliamo Maria, donna forte. Da Lei vogliamo imparare a rimanere in piedi accanto alla croce. Con la sua stessa decisione e il suo coraggio, senza evasioni o miraggi. Ella seppe accompagnare il dolore di suo Figlio, tuo Figlio, o Padre, sostenerlo con lo sguardo e proteggerlo con il cuore. […] Padre, Come Maria vogliamo imparare a stareInsegnaci, Signore, a stare ai piedi della croce, ai piedi delle croci; apri questa sera i nostri occhi, il nostro cuore; riscattaci dalla paralisi e dalla confusione, dalla paura e dalla disperazione. Padre, insegnaci a dire: sono qui insieme al tuo Figlio, insieme a Maria e insieme a tanti discepoli amati che desiderano accogliere il tuo Regno nel cuore (Discorso alla Via Crucis).

 

Una seconda sottolineatura, ricorrente in tutti gli incontri della GMG, è il riferimento forte alla necessaria appartenenza ad una comunità. «Questo i santi l’hanno capito bene. Penso per esempio a Don Bosco che non se ne andò a cercare i giovani in qualche posto lontano o speciale]… semplicemente imparò a guardare, a vedere tutto quello che accadeva attorno nella città e a guardarlo con gli occhi di Dio e, così, fu colpito da centinaia di bambini e di giovani abbandonati senza scuola, senza lavoro e senza la mano amica di una comunità. Molta gente viveva in quella stessa città, e molti criticavano quei giovani, però non sapevano guardarli con gli occhi di Dio. I giovani bisogna guardarli con gli occhi di Dio. Lui lo fece, Don Bosco, seppe fare il primo passo: abbracciare la vita come si presenta; e, a partire da lì, non ebbe paura di fare il secondo passo: creare con loro una comunità, una famiglia in cui con lavoro e studio si sentissero amati. Dare loro radici a cui aggrapparsi per poter arrivare al cielo. Per poter essere qualcuno nella società. Dare loro radici a cui aggrapparsi per non essere abbattuti dal primo vento che viene. Questo ha fatto Don Bosco, questo hanno fatto i santi, questo fanno le comunità che sanno guardare i giovani con gli occhi di Dio. Ve la sentite, voi grandi, di guardare i giovani con gli occhi di Dio? […] E sempre si può “rinnovarsi e germogliare”, sempre si può cominciare di nuovo quando c’è una comunità, il calore di una casa dove mettere radici, che offre la fiducia necessaria e prepara il cuore a scoprire un nuovo orizzonte: orizzonte di figlio amato, cercato, trovato e donato per una missione. Il Signore si fa presente per mezzo di volti concreti» (discorso della Veglia). Ciò che fa la differenza, anche nella pastorale giovanile, è la qualità delle relazioni che si sperimentano nelle nostre comunità, oratori, associazioni, movimenti e gruppi. Tornano le indicazioni del Sinodo dei Vescovi sui Giovani, che scuotono e obbligano a ripensare le nostre forme di vita comunitaria. Gli Oratori, come già l’Arcivescovo chiedeva nelle sue ultime due Lettere Pastorali, possono e debbono essere ripensati in riferimento alla «strada» e alla «casa»: anche su questo stanno lavorando i giovani della Consulta Diocesana, impegnati con l’Arcivescovo nella stesura di un progetto educativo di pastorale giovanile.

Una terza insistenza di Papa Francesco è sul «sì» alla vita, in tutte le sue dimensioni, fragilità e contraddizioni:  «la vita che Gesù ci dona è una storia d’amore, una storia di vita che desidera mescolarsi con la nostra e mettere radici nella terra di ognuno. Quella vita non è una salvezza appesa “nella nuvola” in attesa di venire scaricata, né una nuova “applicazione” da scoprire o un esercizio mentale frutto di tecniche di crescita personale. Neppure la vita che Dio ci offre è un tutorial con cui apprendere l’ultima novità.

La salvezza che Dio ci dona è un invito a far parte di una storia d’amore che si intreccia con le nostre storie; che vive e vuole nascere tra noi perché possiamo dare frutto lì dove siamo, come siamo e con chi siamo. Lì viene il Signore a piantare e a piantarsi; è Lui il primo nel dire “sì” alla nostra vita, Lui è sempre il primo. È il primo a dire “sì” alla nostra storia, e desidera che anche noi diciamo “sì” insieme a Lui. Lui sempre ci precede, è il primo» (discorso della Veglia). Il progetto educativo su cui stanno lavorando con l’Arcivescovo i giovani della Consulta riceve dunque un forte impulso a perseverare anche sulla riflessione circa gli «ambiti di vita», autentica via per l’incontro con Cristo e l’annuncio del Vangelo.

 

Stare presso la Croce si Gesù, guardare i giovani con gli occhi di Dio, abbracciare la vita, tutta la vita: da qui riparte, con Maria, il cammino con i giovani. 

don Luca Ramello 

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