IX. Cremazione: ma non «in spregio alla fede»

La cremazione è una pratica sempre più diffusa: a Torino riguarda il 40% del totale dei defunti (a livello nazionale, il 10%). Da qualche mese, poi, si sono precisate le normative di una legge regionale che rende finalmente possibile la dispersione e l’affidamento delle ceneri, prima impedita da imprecisioni contenute nel precedente testo di legge (la «Voce» ne ha riferito ampiamente negl scorsi numeri).
 
Per quanto riguarda la dispersione, i problemi principali sono di due tipi. Il primo è relativo al luogo dove poter disperdere le ceneri: le diverse possibilità previste (all’interno dei cimiteri, in montagna, in laghi e fiumi, in aree private, purché fuori dai centri abitati) devono impedire di trasformare potenzialmente un ambiente di vita in un area cimiteriale. Il secondo, più complesso, è relativo all’ampia libertà concessa ai parenti stretti (coniuge, convivente, maggioranza dei parenti stretti) di stabilire – in mancanza di una disposizione testamentaria del defunto – la dispersione e l’affidamento delle ceneri.
Qual è la posizione della Chiesa di fronte a tali pratiche? Il profilo della normativa canonica è a questo proposito assai modesto, nella logica dell’invito pastorale, più che del divieto assoluto. Equilibrio e buon senso sono necessari, per non esagerare la portata di determinate scelte: per questo motivo, non si ritiene che tale scelta comporti automaticamente una posizione direttamente e intrinsecamente contraria alla fede.
In pratica, si possono celebrare le esequie di quanti decidono di disperdere le ceneri, là dove questo non sia stato scelto in spregio alla fede cattolica, come segno di un panteismo lontano dalla fede (la confusione con la natura) o di un nichilismo serpeggiante (la scomparsa nel nulla). La considerazione che alla fine della vita saremo giudicati sull’amore, più che sul modo in cui saremo stati sepolti, non si traduce tuttavia in un giudizio di indifferenza. Al contrario, si tratta di cogliere la posta in gioco, personale e comunitaria, di ogni piccola scelta, per fare anche del morire cristiano una testimonianza della carità di Cristo.
Dietro la scelta di non disperdere le ceneri e di non ricorrere alla cremazione, sta infatti la singolare percezione cristiana del valore del corpo, destinato alla risurrezione; della persona, che non scompare nel nulla; della comunione, che fa del camposanto il luogo della comune attesa della risurrezione escatologica. Il corpo, sembra dire la scelta del cimitero, non è mio soltanto; del mio corpo non faccio quello che voglio, poiché esso appartiene a Dio, e – in Lui – a coloro che mi hanno amato e hanno vissuto con me. Essi hanno il diritto ad esprimere ed elaborare il lutto, nel giusto equilibrio tra la separazione progressiva e il contatto ancora necessario.
Qui si pone il giudizio sull’opportunità di custodire le ceneri in un luogo privato, soprattutto nelle case: se nel primo caso il rischio è quello di sbarazzarsi del corpo, eliminando la continuità tra il corpo fisico e il corpo della risurrezione, nel secondo caso il rischio è quello di rimanere ingabbiati nella morte, accanto alla pietra del sepolcro, senza aprirsi alla speranza della risurrezione. La giusta distanza non solo consente uno sguardo spirituale sui resti mortali, ma pure impedisce forme di attaccamento eccessivo all’urna: in una società non attrezzata al culto domestico degli antenati, ci si espone tanto al rischio idolatrico quanto all’irriverenza di chi dimentica, gettando via.
Nella scelta del cimitero, in ultima analisi, non è in gioco solo la socialità della morte e la stabilità della memoria sociale, contro la deriva individualista (per cui decido solo io che fare del mio corpo) o intimista (per cui solo la famiglia o il singolo è proprietario dei suoi morti). Nel modo di vivere la morte, si esprime il senso della vita: nessuno è proprietario unico di nessuno – né la madre del figlio, né il marito della moglie, neppure noi di noi stessi –, poiché tutti apparteniamo a Dio e ai nostri fratelli.
 
 Don Paolo TOMATIS
 
 
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