«Difendere la terra vuol dire anche non sprecarla», rubrica «Lo spigolo tondo»/16

Articolo pubblicato su «La Voce E il Tempo» del 12 dicembre 2021

Sono state numerose le espressioni di delusione della Cop26, la Conferenza internazionale sul clima, da poco chiusa. Tra gli obiettivi essenziali della Conferenza, l’azzeramento delle emissioni nette a livello globale entro il 2050 e la limitazione dell’aumento delle temperature a 1,5° C. Intenti auspicabilmente realizzabili attraverso diverse strade: la fuoriuscita dal sistema ‘carbone’, la riduzione della deforestazione, l’incoraggiamento all’uso di fonti di energia rinnovabili, la transizione verso i veicoli elettrici.

Di questo si è molto parlato con richiami alle responsabilità dell’economia globale. Un aspetto sul quale si è cercato di porre attenzione è stato anche il tema della desertificazione delle terre, per il crescente e diffuso abbandono di pratiche agricole locali da preziose microeconomie famigliari (small-scale farming). Un fenomeno p territori fragili, anche nel nostro Paese. Sono stati riportati gli elementi di merito di questa agricoltura ‘minore’, con espressioni di pesante critica verso i sistemi di agricoltura intensiva, ad alte emissioni, di aree più produttive.

Stiamo osservando, da più di mezzo secolo, un evidente arretramento delle attività agricole e un’avanzata incontrollata di foreste d’invasione di scarsa o nulla qualità, certamente non idonee a contribuire alla compensazione dei gravi processi globali di deforestazione. Si tratta di una tendenza all’abbandono generalizzata con tutti i rischi connessi, tra incendi e dissesti, che va gravemente a discapito di insostituibili attività agricole. Si tratta di un vero e proprio impoverimento della dimensione ‘umana’ di questi luoghi, con perdita di valori culturali per la vita, le identità e le diversità.

È evidente che questo abbandono è una espressione di ‘spreco’. Ciò ha portato, gravemente ed estesamente, alla perdita di componenti, anche estetiche, di molti paesaggi creati e mantenuti per secoli grazie al lavoro dell’uomo, una ricchezza che aveva assicurato la vita di svariati ecosistemi. Attività pastorali che hanno ad esempio modellato il paesaggio delle Alpi. Una certa ‘non-cultura’ ambientalista, spinta con frequenza, e a volte con violenza, a forme di animalismo estremo, si è però ostinata negli ultimi decenni a non riconoscere il valore di queste pratiche agricole, fondamentali per mantenere determinati equilibri e qualità degli ambienti.

Una visione che ha teso piuttosto ad esaltare la wilderness, con forme di fanatismo nei riguardi di un cosiddetto ‘ritorno al naturale’ con una proliferazione incontrollata di animali selvatici. Tra essi anche predatori come lupi, orsi e altre specie. Vengono così ignorate le gravi conseguenze del fenomeno, inclusa l’esasperazione dell’uomo che ancora vive in questi luoghi, costretto a ritirarsi progressivamente (un vero e proprio landgrabbing), non essendo più in grado di presidiare e custodire terre preservate da generazioni.

«La terra è la mia preghiera», scriveva Gino Girolomoni, imprenditore e saggista marchigiano ma anche profondo credente e agricoltore, ispiratore di iniziative per un’agricoltura sostenibile. In qualche modo precorrendo alcune espressioni di Papa Francesco nella sua enciclica Laudato sì. «Dobbiamo tornare a guardare alla terra come cosa sacra. Lavorare la terra deve tornare ad essere un atto di preghiera».

Luca BATTAGLINI

Dipartimento Scienze agrarie, forestali e alimentari (da «La Voce E il Tempo» del 12 dicembre 2021)

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