XIV. Cinquanta giorni di festa

Il tempo pasquale distende nel tempo il clima festoso del giorno di pasqua. Il canto dell’alleluia, che ha interrotto il digiuno quaresimale, si prolunga nei cinquanta giorni e culmina con la solennità di Pentecoste. Anche la festosa luce del Cero pasquale illumina l’intero tempo della festa, e ci invita a mantenere accesa la memoria della notte più splendente del giorno (preconio pasquale). Così infatti troviamo esplicitato nelle Norme Liturgiche del Calendario Romano: «I cinquanta giorni che si succedono dalla domenica di Risurrezione alla domenica di Pentecoste si celebrano nell’esultanza e nella gioia come un solo giorno di festa, anzi come la “grande domenica”. Sono i giorni nei quali, in modo del tutto speciale, si canta l’Alleluia» (n° 22). Altri “ingredienti” rendono festosa la liturgia della cinquantina pasquale: la Parola, i segni battesimali, i gesti pasquali.
Anzitutto, la Parola: nel cuore del tempo pasquale risuona interrottamente l’annuncio festoso della Risurrezione. La Liturgia Eucaristica, la Liturgia delle Ore, continuamente mettono sulla nostra bocca il lieto annuncio: “Cristo è risorto, è veramente risorto”! Un invito, dunque, a porre nel cuore della nostre celebrazioni l’annuncio festoso del Vangelo, preparato e prolungato dal gioioso canto dell’Alleluia. La recente pubblicazione dell’Evangeliario (curato dalla Commissione Liturgica Regionale Piemontese e pubblicato dalle edizioni Messaggero Padova), mette nelle nostre mani qualcosa di più di un semplice libro. La bellezza e la nobiltà della forma, il colore bianco di cui si riveste, la processione che accompagna il suo irrompere nell’assemblea, il profumo dell’incenso che lo avvolge, la luce dei ceri che lo rallegrano, il canto dell’alleluia che lo precede e accompagna, sono i segni gioiosi della gioia pasquale. Rendono presenti nell’assemblea liturgica lo spavento e l’esultanza delle donne dopo l’annuncio dell’angelo (Mc 16,1-8), la speranza che dà vigore ai piedi di Simon Pietro che corre verso il sepolcro (Gv 20,1-9), lo stupore di Giovanni che ammutisce davanti alle bende che hanno avvolto il corpo di Gesù (Gv 20,9), il cuore gonfio di speranza dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), la fede di Tommaso davanti all’apparizione di Gesù a porte chiuse (Gv 20,19-31). La proclamazione del Vangelo, dunque, è voce che riveste di carne e rende tangibile la gioia pasquale, è icona che rivela, qui e ora, la visita di Gesù alla comunità radunata nel suo nome. I diaconi, i presbiteri, chiamati a proclamare il Vangelo nel tempo pasquale, sono invitati a curare con particolare attenzione questo momento liturgico. L’atmosfera di stupore e di gioia di cui sono impregnati i testi dovrebbero essere respirati e manducati per potersi trasformare in annuncio sincero e verace. Ciascun ministro, poi, con semplicità e autenticità, darà alle parole, voce e corpo. Senza eccessiva enfasi, senza camuffare la propria voce, senza attirare eccessivamente l’attenzione su di sé (come capita quando si guarda troppo spesso l’assemblea durante la lettura). Possiamo aggiungere sono qualche piccola raccomandazione: curare con una certa forza l’annuncio iniziale (dal Vangelo secondo …. ) e l’acclamazione finale (Parola del Signore!). Nel tempo pasquale, si potrebbe, perché no?, eseguirli in canto, in modo da favorire la risposta gioiosa dell’assemblea. In questo caso, un respiro profondo prima dell’annuncio cantato, aiuta a rispettare la pausa e a sostenere la voce in modo corretto.
Una ulteriore caratteristica da sottolineare nel tempo pasquale, è la cura e la valorizzazione dei segni battesimali: l’acqua, la luce, la professione di fede. Il Messale, prevede la possibilità di sostituire l’atto penitenziale con l’aspersione dell’acqua benedetta. In questo caso, è necessario curare alcuni dettagli: la brocca dell’acqua benedetta nella Veglia pasquale, che in tutta la cinquantina pasquale potrebbe avere una sua precisa collocazione nei pressi del fonte battesimale o dell’ambone. L’aspersorio, che potrebbe essere confezionato con rametti verdi (vedi articolo sul sito dell’ufficio liturgico), il canto gioioso che accompagna il rito di aspersione. Infine, la professione di fede al termine della liturgia della Parola, potrebbe essere valorizzata con ritornelli cantati (così come prevede il repertorio della Casa del Padre), con l’utilizzo della formula battesimale, così come celebrato nella Veglia Pasquale, oppure, con un’esecuzione in canto (vedi ad esempio la proposta del Repertorio nazionale, Io credo in Dio, n° 18).
Per concludere, desideriamo invitare le comunità cristiane a riscoprire la bellezza e il significato del segno della pace. Troppo spesso enfatizzato o, al contrario, ignorato, questo gesto ha smarrito quasi del tutto il suo orizzonte pasquale. Il segno della pace, infatti, nasce come prolungamento del saluto di Gesù alla comunità cristiana (Gv 14,27) radunata dopo gli eventi pasquali. Il recente documento di Benedetto XVI Sacramentum caritatis, invita le comunità a valorizzare questo gesto (n° 49) evitando ciò che crea confusione nell’aula. Una eccesiva enfasi, infatti, molto spesso svuota il gesto, banalizzandolo e trasformandolo in un semplice convenevolo. Il segno della pace, al contrario, è dono il Cristo risorto. Lui, infatti, è la nostra pace (Ef 2,14), riconciliazione piena e definitiva con Dio e tra di noi. Per questo, la pace è anzitutto un gesto che accogliamo e che di conseguenza ci doniamo reciprocamente, gli uni gli altri, in quanto battezzati (non è superfluo ribadire che il Messale non prevede nessun canto).
Morena Baldacci
 
 
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