Parola: il ministero del lettore

Nella celebrazione liturgica, è ormai un dato di fatto affidare ad un lettore il compito di proclamare le Scritture. Tuttavia, l’impressione è che non sia considerato un vero e proprio ministero, ma un semplice compito da espletare. Qual è l’identità del lettore? È necessario prevedere un rito di istituzione?

Quello del lettore è un ministero molto antico, che sin dalle prime comunità cristiane appare come un servizio stabile, istituito e stimato: lo si affidava preferibilmente ad adulti che dimostravano non solo conoscenza delle Scritture, ma pure esemplarità di vita. Ben presto, tuttavia, il ministero del lettore fu riservato a coloro che erano incamminati verso gli ordini sacri: da qui la scelta di giovinetti, che potevano imparare a scuola l’arte della lettura, oltre che garantire una lettura particolarmente squillante. Con il passare del tempo molte delle funzioni del lettore furono requisite dagli ordini maggiori, in un processo di progressiva scomparsa della proclamazione assembleare (a causa della messa privata), del luogo della Parola (l’ambone) e della Parola stessa (la prima lettura, eliminata). Il servizio è stato pienamente recuperato con la riforma liturgica scaturita dal Vaticano II: al lettore istituito spetta leggere la Parola di Dio nell’azione liturgica, enunciare – in assenza del diacono – le intenzioni della preghiera universale, curare la preparazione dei lettori «di fatto», educare alla fede come catechista. L’espansione del ministero (da lettore nella liturgia a ministro della Parola), insieme alla riserva ai soli uomini, hanno impedito un reale ripristino di tale servizio istituito. La mancanza di un riconoscimento, d’altra parte, ha impedito una effettiva valorizzazione dei numerosi ministri di fatto, in sintonia con l’importanza della liturgia della Parola.

Tra l’assenza dei ministeri istituiti e l’inconsistenza dei ministeri di fatto, non è insensato pensare ad una terza via: quella dei ministeri riconosciuti, attraverso un incarico diocesano a tempo determinato. Ciò garantirebbe una formazione più specifica e permanente, che senza voler trasformare i lettori in attori di teatro sottolineerebbe l’evidenza sacramentale della liturgia della Parola: la mensa della Parola è così importante che non può essere affidata all’ultimo momento, al primo che capita. Il riconoscimento di questo ministero all’interno della celebrazione (attraverso la processione di introito, il luogo in cui ci si siede, l’eventuale veste bianca, là dove si è sufficientemente al sicuro da certe ansie di protagonismo e clericalismo che colpiscono anche i laici) è in realtà tutto relativo alla Parola, di cui il lettore è umile ministro, esposto tra la necessità di coinvolgersi totalmente (perché la Parola sia viva ed efficace) e di espropriarsi di sé, scomparendo dietro la Parola.

La creazione di un gruppo aperto di lettori, garantirebbe infine il giusto equilibrio tra la stabilità che onora il ministero e l’intercambiabilità che non se ne impossessa e fa spazio ad altri. Il giorno in cui si avvertirà come normale la necessità di una preparazione remota e prossima dei lettori, allo stesso modo che per i musicisti e i cantori del coro, anche l’omelia sarà più consapevole di arrivare dopo, in punta di piedi, non per scalzare, ma per sottolineare quanto è già stato detto ed ascoltato.

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