V. Lo spazio liturgico nel tempo di Quaresima

La liturgia è un agire che fa spazio ad un altro agire: l’agire del Signore Gesù, che si fa presente nella sua assemblea. Lo spazio liturgico, pertanto, non è un semplice contenitore: è un linguaggio importante, che concorre in modo decisivo a “far spazio” al Signore. Uno spazio ingombrato, agitato e “occupato”, rischia di fare da schermo opaco, anziché vetro trasparente, al Mistero che si celebra. La liturgia è chiamata ad essere una finestra aperta verso l’Invisibile, e non una vetrina, o peggio uno specchio, che riflette noi stessi. Il suo fine è l’epifania del Mistero di Dio, e non l’epifania dell’io. La questione è certamente delicata: lo stiamo verificando nei laboratori distrettuali di questi mesi, che pongono nel vivo delle nostre assemblee la sfida di tenere in equilibrio la ricerca di una liturgia “ecclesiale”, fedele al Mistero, e la ricerca di una liturgia “comunitaria”, attenta alla concreta assemblea.
Si pone qui il necessario discernimento sulla vera e propria “messe” di iniziative che convergono verso la Messa domenicale: il rischio è quello di fare della liturgia un bazar, un mercatino di proposte, segni, pseudosimboli, interventi vari, ambientazioni che rischiano appunto di occupare lo spazio anziché liberarlo, orientandolo. L’invito quaresimale alla sobrietà delle immagini, delle parole e dei canti, deve in effetti fare i conti con le molteplici iniziative provenienti dalla catechesi, dall’animazione giovanile, dalla Caritas, dal gruppo liturgico stesso, che non si accontenta del “solito” atto penitenziale e vuole fare qualcosa di più. L’intento è nobile, ma il rischio è quello di sovraffollare la liturgia del nostro agire, anziché far spazio al suo.
C’è un sottinteso dietro queste iniziative, che sembra dire: il rito non basta; dobbiamo aggiungere e rinforzare, “adattarlo” e “animarlo”, perché sia vivo. Così facendo si rischia però di uscire dalla logica finissima del rito, di mortificarlo e di ridurlo ad altro. E se invece il rito fosse capace di esprimere da se stesso i valori e le attenzioni che più ci stanno a cuore? Senza una complessiva “arte di celebrare”, a nulla valgono i nostri sforzi di inventare qualcosa per coinvolgere di più. Per restare sull’esempio dell’atto penitenziale, crediamo davvero che qualche “segno” strano inventato dall’animatore di turno aiuti a riconoscerci peccatori perdonati davanti al Signore? O che le tre preghiere lette dai bambini sulle striscioline di carta aiutino grandi e piccoli a mettersi davanti al Signore misericordioso? Tutto ciò rischia di essere ora infantile, ora superficiale, e in ogni caso un po’ cerebrale: al centro vi sono le parole, e anche i segni hanno bisogno di parole che spieghino. E se invece ci fidassimo del rito, che attraverso i codici dello spazio e del tempo, del corpo e dei gesti, delle parole e del silenzio, del canto e delle immagini, ci fa fare una cosa semplice: orientare lo sguardo al Signore misericordioso!? Allora non ci preoccuperemmo più di aggiungere e creare, ma dell’ordinario e dell’essenziale del rito: il prete che presiede occupa il centro, o si mette di lato, alla sede? Verso quali immagini orientiamo lo sguardo? Lo spazio delle nostre assemblee è pensato per fare spazio al Signore, alla “giusta distanza”? Quale è la forza della ripetizione di una litania cantata come Kirie eleison? Quanto le nostre parole sono pesate e semplificate? Quale ritmo tra parola e silenzio, per far spazio anche con il respiro al grido del cuore? Di fronte alla ricchezza simbolica dei linguaggi della liturgia, non appare sinceramente superfluo ogni altro simbolo “pedagogico”?
Certo, occorre guardarsi dal rischio opposto, che è quello di azzerare ogni sottolineatura, di ignorare ogni particolarità, o di esagerare con l’invito alla sobrietà, che chiede di abbassare toni e volumi dei codici (canti, immagini, parole…). Il rischio è di trasformare le domeniche di quaresima – tradizionalmente festive! – in un lungo venerdì di passione. Lasciamo che sia il Venerdì santo a costituire il culmine di questo processo di spogliazione. Se togliamo il canto di ingresso, che accompagna ogni processione eucaristica, e il segno della pace, che fa parte della struttura dei riti di comunione, togliamo quello che non deve essere tolto, magari aggiungendo altrove ciò che non è richiesto.
Perché la liturgia sia uno spazio che fa spazio (al Signore misericordioso, nei riti di inizio; alla Parola dall’ambone, nella liturgia della Parola; ai gesti eucaristici di Cristo), occorre riscoprire il valore importante dell’orientazione: il suo segreto non è aggiungere, ma togliere, fare il vuoto per essere riempiti. Occorre reimpararlo dal buddismo, oppure possiamo fare da noi?
 
don Paolo Tomatis
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