Eutanasia e suicidio assistito: nota dei vescovi sulla sentenza della Corte

Mercoledì 25 settembre 2019 la decisione della Consulta. La Chiesa di Torino, per voce del suo Arcivescovo, aveva già rilanciato l'appello del card. Bassetti

Mercoledì 25 settembre 2019, in merito alla sentenza della Corte Costituzionale sul tema dell’eutanasia e del suicidio assistito, la Presidenza della Conferenza episcopale italiana ha diramato la seguente nota:

«”Si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia”.

I Vescovi italiani si ritrovano unanimi nel rilanciare queste parole di Papa Francesco. In questa luce esprimono il loro sconcerto e la loro distanza da quanto comunicato dalla Corte Costituzionale.

La preoccupazione maggiore è relativa soprattutto alla spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità.

I Vescovi confermano e rilanciano l’impegno di prossimità e di accompagnamento della Chiesa nei confronti di tutti i malati.

Si attendono che il passaggio parlamentare riconosca nel massimo grado possibile tali valori, anche tutelando gli operatori sanitari con la libertà di scelta».

 

Già venerdì 20 settembre l’Arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, l’Ufficio Pastorale della Salute, il Centro Cattolico di Bioetica, la Piccola Casa della Divina Provvidenza (Cottolengo), si erano espressi coralmente sul tema con una dichiarazione pubblicata sul settimanale diocesano «La Voce e il Tempo»:

«Ringraziamo il Presidente della CEI il Card. Gualtiero Bassetti che a nome di tutti i Vescovi ha espresso un chiaro pronunciamento sulla eutanasia e il suicidio assistito, con l’invito rivolto alle forze politiche del Paese a prendere in esame al più presto questo argomento non aspettando quindi il pronunciamento della Corte Costituzionale previsto per il 24 di questo mese.

Non possiamo accettare l’idea che il diritto di decidere il tempo del proprio morire sia proposto come un atto di legittima autonomia personale. La scelta dell’annientamento del sé, infatti, non è espressione di libertà, ma il suo opposto. La libertà, infatti, si esprime solo attraverso la vita. È evidente ai più che le derive eutanasiche, spesso spacciate come forma di pietà, di fatto sono una perversione di essa perché – come ricorda il n. 66 dell’Enciclica Evangelium vitae di San Giovanni Paolo II «la vera “compassione” rende solidali al dolore altrui». Ne è anche prova il fatto documentato da numerose inchieste che il malato nella assoluta maggioranza dei casi non si rivolge al medico per morire ma per guarire o almeno per trovare, con la dovuta terapia e assistenza sanitaria, sollievo al dolore. Le correnti di pensiero favorevoli alla morte procurata di fatto rispecchiano una mentalità di tipo utilitaristico che valuta il soggetto umano unicamente in base all’utile sociale che può fornire e non tutela pertanto la vita debole. È fomentata da un modello antropologico che considera l’uomo come un essere assoluto, sganciato da ogni sistema di valori di riferimento oggettivi e degno di tutela solo in base alle prestazioni che sa offrire e al benessere psico-fisico che porta con sé.

Possono essere riconosciuti motivi che attenuano e differenziano le sanzioni per l’aiuto al suicidio, ma l’eventuale sua depenalizzazione rischia di dare il via ad un piano inclinato che potrebbe avvallare l’interruzione della vita per qualsiasi ragione. Il dovere della società non è quello di aiutare a morire chi è in difficoltà, ma di sostenerlo e curarlo.

È evidente, poi che un atto medico finalizzato a procurare la morte contrasta con il senso della professione che – come recita il terzo articolo del Codice deontologico – ha come dovere primario «la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera». Di fronte ad una legge favorevole a qualsiasi forma anche velata di eutanasia il ricorso alla necessaria obiezione di coscienza del personale sanitario e degli ospedali cattolici sarebbe pertanto inevitabile.

Va inoltre rimarcato che una eventuale legge favorevole alla morte procurata incrementerebbe una palese ingiustizia perché provocherebbe una sanità a due livelli dove chi ha maggiori risorse personali potrebbe ottenere cure qualificate in ogni frangente di vita e chi invece ha meno possibilità economiche potrebbe essere considerato un peso per la società e addirittura essere soppresso contro la sua volontà come già avviene in alcuni paesi. Qualcuno potrebbe essere ingiustamente indotto ad accusare la Chiesa italiana di voler salvaguardare la vita a tutti i costi, anche a rischio di costringere le persone a sopportare sofferenze atroci. Nulla di più scorretto. Perché più volte la Chiesa ha sostenuto l’inopportunità di ogni forma di “accanimento terapeutico” che ha il perverso scopo di procurare un precario e penoso prolungamento della vita e ha ribadito l’importanza di tutelare la dignità della persona applicando le terapie proporzionate e concordate di volta in volta all’interno di una proficua alleanza terapeutica capace di coinvolgere gli operatori sanitari e i pazienti.

A questo riguardo Papa Francesco, nel messaggio rivolto nel novembre 2017 ai partecipanti al meeting regionale europeo World Medical Association, ha dichiarato che «per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano». La Chiesa quindi nei suoi numerosi documenti in materia ha sempre sottolineato che nell’imminenza della morte è lecito decidere di rinunciare a trattamenti ormai inefficaci senza però abbandonare il malato che deve essere accompagnato con la necessaria palliazione che comprende trattamenti medici e infermieristici destinati ad alleviare i sintomi e a sostenere dal punto di vista sociale e spirituale. È ammissibile in questi frangenti, in presenza di dolori insopportabili e refrattari all’usuale analgesia, anche la sedazione profonda soppressiva della coscienza. È questa la risposta più adeguata al dramma della sofferenza. Il malato, infatti, normalmente non chiede di morire ma di essere convenientemente assistito e amorevolmente accompagnato. Quest’attenzione eleva il livello di civiltà di una nazione.

Una società incapace di vera solidarietà verso i più deboli, infatti, decade in un nichilismo esasperato e distruttivo. Invece una assistenza capace di sostenere adeguatamente chi è in difficoltà contribuisce a realizzare un mondo più vivibile perché più ricco di umanità. Purtroppo, però l’Italia è ancora impreparata a questo tipo di assistenza. Sono, infatti, troppo limitati gli hospice, strutture sanitarie deputate all’accoglienza dei malati terminali. Sarebbe auspicabile che fossero aumentate e destinate anche a quanti sono affetti da patologie neurologiche degenerative estremamente invalidanti come la SLA. Ancora più limitate sono l’assistenza e le cure palliative domiciliari; esse, quando è possibile e opportuno, hanno il grande beneficio di lasciare il malato, nel suo contesto abitativo e di coadiuvare i familiari per rendere più efficace e meno pesante la cura e l’assistenza diuturna.

Auspichiamo che su questa materia complessa e spesso controversa si attivi un sereno dialogo e confronto tra tutte le componenti religiose, sociali e politiche del nostro Paese per giungere a soluzioni e proposte condivise sul principio fondamentale del bene di ogni persona, non lasciata mai sola a decidere, ma sostenuta da un rapporto di fiducia con il proprio medico e con la propria coscienza.

Mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo di Torino»

(In allegato la pagina de «La Voce e il Tempo» del 22 settembre 2019)

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