Il Sinodo in Diocesi/13: l’esperienza dell’ospedale Santa Croce a Moncalieri

Risultati della serata di confronto tra gli operatori del nosocomio

È possibile “fare il Sinodo” in ospedale? Ci hanno provato quelli del “Santa Croce” di Moncalieri, in una serata che, dopo una breve introduzione sulla storia e il senso del Sinodo si sono chiesti “In che modo la Chiesa può aiutarci a vivere questo nostro servizio alla società?”. Si tratta di una delle domande proposte dal “Percorso di consultazione sinodale con gruppi sul territorio e negli ambienti di vita”.

Una domanda sola, ma particolarmente densa. Presuppone infatti che si pensi al proprio posto di lavoro (nei casi specifici dei partecipanti: i reparti di pediatria, rianimazione, pronto soccorso e il servizio logistico) come un autentico luogo di servizio alla società. Un luogo in cui si esercita una responsabilità in prima persona a contatto con pazienti, parenti e colleghi, ma non raramente si avverte la necessità di aiuto. E qui può essere veramente una risorsa la Chiesa: il Papa col suo Magistero, certo; ma anche le comunità parrocchiali a cui si appartiene e la fede vissuta e i gesti di fede testimoniati da pazienti, parenti, colleghi.

La stagione del Covid, è stato detto, ha lasciato negli operatori dell’ospedale ferite profonde: “Ho visto gente morire, senza poter fare niente”; “La pediatria sta registrando una impennata di prese in carico di ragazzi con disturbi alimentari o protagonisti di atti anticonservativi”; “Nei reparti di degenza c’è ancora tensione e anche chi ha tanti anni di professione sta impiegando molto tempo a ‘metabolizzare’ questi vissuti”; “I miei stessi genitori hanno vissuto, in questo tempo, ricoveri durati mesi, con tutte le limitazioni all’assistenza dei parenti che ben conosciamo, in un ospedale diverso da quello in cui lavoro”. Una situazione straniante, viene da dire. O provocante la propria professione di operatore sanitario e la propria vocazione di figlio: “Non posso prendermi cura dei miei genitori, so che lo faranno i miei colleghi di un altro ospedale, io sono chiamato a dare il meglio di me nel prendermi cura dei genitori di altri”.

In tanta fatica, già si è sperimentato qualcosa di una Chiesa “che aiuta a vivere”. Uno dei presenti ha condiviso: “In questi mesi ho ripreso ad andare a Messa. E mi ha fatto bene”. Un altro: “Mi ha aiutato il mio parroco. È stata importante la sua parola che giungeva nei giorni di quarantena; e anche dopo, quando lentamente la vita ha ripreso a scorrere, ma doveva fare i conti con tante limitazioni, è stato importante sapere che lui c’era”. Ancora: “Il cappellano dell’ospedale che – con i dispositivi di protezione di tutti noi ma in qualche modo riconoscibile – passa tra le barelle del Pronto Soccorso e sosta tra gli ammalati, dice di una Chiesa che si impasta con la gente”.

Finita o no l’emergenza, restano le risorse grandi, di cui la Chiesa dispone da sempre. La Parola di Dio: quante pagine del Vangelo ci raccontano di Gesù tra gli ammalati! La preghiera e i Sacramenti: questo gruppo di operatori si è incontrato nella Cappella dell’Ospedale, che continua ad ospitare tante soste di preghiera individuale e la Messa ogni sabato pomeriggio, aperta (e frequentata) da malati e operatori sanitari, in attesa che sia accessibile anche ai parenti, ora inibiti dalle misure antiCovid. Ma si è fatta memoria anche degli intensi momenti vissuti al capezzale dei un malato, presenti magari i soli infermieri, in occasione di una Comunione o dell’Unzione degli Infermi. Infine la stessa presenza degli operatori sanitari che, da battezzati, sono la Chiesa che vive e testimonia il Vangelo tra le corsie dell’ospedale. E sono capaci di ispirare momenti di Vangelo con un gesto di delicatezza, un suggerimento, una carezza.

Questo incontro sinodale ha permesso ai presenti, tra l’altro, di ri-conoscersi come portatori di un comune sentire e vivere la professione in ospedale. Non è poco. Che il cammino continui!

Don Filippo Raimondi

assistente religioso dell’ospedale S. Croce a Moncalieri

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