«Serve uno scatto etico», mons. Nosiglia alla manifestazione del 1° maggio 2021

Intervento alla cerimonia nella Sala delle Colonne di Palazzo Civico a Torino

Per il secondo anno a Torino il 1° maggio 2021 non ci sono stati cortei in piazza, ma una “cerimonia” al chiuso, nella Sala delle Colonne di Palazzo Civico. Sono intervenuti i tre segretari di Cgil, Enrica Valfrè, Cisl, Domenico Lo Bianco, e della Uil, Gianni Cortese. In più le tre organizzazioni hanno dato spazio ai rappresentanti dei lavoratori, lasciando la parola a delegati e addetti dei settori in difficoltà, dal privato – comparto auto e metalmeccanica – al pubblico, come la scuola, fino a servizi e commercio, considerato il settore più in difficoltà.

Alla cerimonia hanno partecipato anche la sindaca di Torino, Chiara Appendino, il presidente della Regione, Alberto Cirio, e l’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, che ha sempre mostrato attenzione rispetto al tema del lavoro e dell’occupazione. Di seguito e in allegato il testo dell’intervento di mons. Nosiglia.

«Cari amici, io sono qui oggi come testimone che insieme a voi vuole condividere le proprie considerazioni sul futuro del lavoro nel nostro territorio. In questi ultimi anni, ho seguito alcune delle più importanti crisi del lavoro: tante aziende ne sono state coinvolte, in forme sempre più drammatiche. Penso che sia dovere di un vescovo essere presente al fianco delle persone e delle famiglie nei momenti di maggiore difficoltà.

Tale crisi, oggi, si sta aggravando: sappiamo come molte imprese siano in difficoltà nell’accesso al credito e nella liquidità, fiaccate da un anno di forti restrizioni nel tentativo di limitare l’avanzata del Covid. Tutto ciò ha forti implicazioni sul piano occupazionale, per cui tante e troppe persone perdono il lavoro e guardano con grande preoccupazione al termine degli ammortizzatori sociali e al blocco dei licenziamenti. E anche io ne sono fortemente preoccupato.

L’ingiusta via crucis che si perpetua per i lavoratori dell’ex Embraco è solo la punta dell’iceberg; siamo una realtà che è sull’orlo del baratro e la situazione sociale rischia di esplodere in tutto il nostro territorio. Tutto ciò comporta nuove forme di tensione nelle relazioni familiari, disistima di sé stessi con forti ricadute piscologiche, sia sul piano personale che su quello sociale.

Non mancano, tuttavia, segnali di speranza. E a questi dobbiamo guardare, se vogliamo dare un senso al periodo che stiamo vivendo. Serve uno sguardo generativo e non depressivo per poter uscire insieme dai problemi. Infatti, assistiamo ad una mobilitazione sociale, figlia di una consapevolezza sempre più diffusa, che vede interagire insieme i diversi soggetti del campo sociale ed economico: le associazioni d’impresa, le organizzazioni sindacali, il sistema del credito, le fondazioni, le istituzioni pubbliche, il volontariato e le comunità religiose e civili del territorio. Stanno emergendo forme concrete di solidarietà diffusa, che evidenziano la volontà di non rassegnarsi, ma di affrontare la congiuntura con intraprendenza e nuove progettualità.

Si impone tuttavia alla coscienza di tutti uno “scatto” etico, fondato su regole condivise, per rimettere al centro dei rapporti di lavoro, della finanza, del mercato e dell’economia, la persona, la famiglia, l’impresa, in una rete di relazioni, che conduca all’assunzione di responsabilità in ordine al bene comune. Servono stili di vita più sobri ed una ritrovata coesione sociale.

Per raggiungere questo obiettivo bisogna però attivare alcuni impegni comuni: superare la cultura dello scarto e del profitto individuale, per puntare sul paradigma dell’incontro e della sinergia tra le varie componenti del mondo economico e sociale; serve maggiore cooperazione: il mondo economico è stato prevalentemente concentrato sull’idea della competizione e competere spesso è coinciso con scartare, ha significato emarginare.

Dobbiamo invece lanciare una nuova sfida: civilizzare l’economia, pensando che la competitività si basi sulla cooperazione. E per cooperare serve riconoscersi, dare un volto e delle possibilità agli altri soggetti: senza questo basilare virtù, la cooperazione rischia solo di diventare funzionale e scarsamente generativa. Serve, ad esempio, riconoscere ruolo e spazio alle organizzazioni della rappresentanza. Penso che i lavoratori debbano essere partecipi delle scelte della vita d’un impresa, che, con il loro lavoro, contribuiscono a far prosperare.

La nostra città e tutta l’area metropolitana hanno molteplici potenzialità; siamo un territorio in cui l’intreccio sapiente tra la tradizione del lavoro fatto bene, del welfare e della cura sociale (con l’attenzione alle persone in difficoltà) e dell’educazione può rappresentare un’enormi leva di sviluppo. Queste attenzioni e qualità possono rendere Torino un unicum nel panorama nazionale e internazionale e una pioniera nel quadro dello sviluppo sostenibile.

E affinché lo sviluppo sia davvero autentico, va costruito per tutti, senza che ci siano alcuni soggetti privilegiati, tralasciando nelle retrovie tutti gli altri. Ogni persona deve sentirsi partecipe e protagonista del lavoro che svolge. Ma insieme a lavoro, welfare ed educazione sappiamo quanto oggi sia importante la sfida della transizione ecologica, di modelli produttivi che non producano scarti “ambientali”. Salvaguardare il creato e le possibilità delle generazioni future è una delle sfide più avvincenti che possiamo raccogliere.

Un’attenzione particolare va assicurata a due categorie particolarmente colpite nella pandemia. I giovani sono spesso sono privi di opportunità per accedere al mondo del lavoro, oppure vi entrano in maniera saltuaria, talvolta scarsamente riconosciuti nelle loro professionalità e competenze. Oppure vanno all’estero. Sappiamo come il nostro territorio sia abitato da un fenomeno preoccupante: quello dei neet, ovvero giovani che non cercano neppure più il lavoro, perché sono sfiduciati o scoraggiati. La seconda categoria duramente messa alla prova durante la pandemia è quella delle donne: molte di loro stanno rinunciando al lavoro perché “obbligate” nel ripiegarsi esclusivamente ai lavori di cura familiare; o ancor peggio, se volete, spesso vengono messe ai margini del lavoro sul profilo delle responsabilità e del riconoscimento economico. E ancora peggio continuano ad esserci discriminazioni legate ai periodi di maternità, contrapponendo la famiglia e la vita al lavoro!

Cari amici, vi confesso poi un fatto che mi preoccupa non poco e che ho sperimentato affrontando le diverse vicende di imprese che ho seguito in questo periodo. Mi sono molto meravigliato e continuo a stupirmi del fatto che spesso si assumono scelte (anche valide ed efficaci) da parte delle istituzioni, senza prevedere un appropriato coinvolgimento dei lavoratori e degli stessi sindacati. Mi sono sentito dire molte volte: “Prima vediamo che cosa possiamo fare in concreto per salvare o affrontare e risolvere il problema di quell’azienda, poi successivamente sentiremo anche i sindacati e i lavoratori”.

Sembra che i sindacati e i lavoratori stessi siano realtà superflue o addirittura di impedimento nel risolvere i problemi. Ritengo invece che il coinvolgimento delle parti sociali dovrebbe essere autentico e profondo, e non di facciata, per far sì che i lavoratori e le loro rappresentanze possano esercitare un proprio ruolo di co-programmazione condivisa. Uno dei rischi infatti è che l’impresa risponda quasi esclusivamente a chi ne è proprietario o in essa investe e finisca così per ridurre la sua valenza sociale, mentre dovrebbe anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla sua vita e, prima tra tutte, le maestranze e i sindacati che li rappresentano.

Mi auguro infine che si valorizzi e promuova, da parte del governo, della Regione e dei comuni coinvolti, lo specifico proprio del lavoro nel nostro territorio – e mi riferisco anzitutto al campo dell’automotive, delle attività manifatturiere e della ricerca e innovazione, tutte realtà che hanno contribuito a rendere efficace e produttivo il lavoro con risultati non secondari, ma riconosciuti anche a livello nazionale e internazionale. Lo stesso vale oggi per l’intelligenza artificiale, che come è stato promesso dovrebbe avere il suo sito nazionale nella nostra città di Torino.

Io sono certo che da questa crisi si può dunque uscire più forti di prima, non solo sul piano economico e finanziario, ma su quello dei valori umani, spirituali e sociali, che ne garantiscono un ordinato e diffuso sviluppo. La Chiesa di Torino darà il massimo di partecipazione e di coinvolgimento perché il lavoro, vero strumento che dà dignità e sicurezza ad ogni persona e alla sua famiglia, sia sempre disponibile per tutti e per ciascuno, considerato la fonte primaria da garantire e promuovere in termini di sicurezza, di salute e di stabilità».

condividi su